Duccio Demetrio

La scrittura cura le nostre fragilità e poi ci rende liberi.

Incontro Duccio Demetrio nel suo studio di Milano nel quale io stessa, anni fa, intrapresi un percorso di scrittura autobiografica individuale. Demetrio è stato il fondatore – insieme con Saverio Tutino – della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (www.lua.it). Ci sediamo sulle poltrone davanti alla finestra e lo invito ad aprire il tema della scrittura autobiografica nelle condizioni di fragilità umana.

Perché scrivere di sé fa bene?
La Libera Università accoglie donne e uomini, da ogni parte d’Italia, che desiderano impegnarsi nella scrittura di sé. Alcuni arrivano con l’intenzione di compiere un percorso di formazione professionale (tre anni ), altri frequentano il primo anno con il semplice ma profondo desiderio di dare testimonianza scritta della propria vita, con tutte le sue fragilità.

Il punto di partenza è che ci sia un desiderio di scrittura. La richiesta di essere aiutati a scrivere è un passo importante verso la presa di coscienza di sé. È una scelta che mette in movimento la persona verso una ridefinizione di sé, anche e soprattutto nei suoi aspetti fragili e problematici. Voler scrivere presuppone sempre un desiderio di comunicazione. Tu, Laura, hai scritto la tua prima autobiografia avendo come destinatari i tuoi figli, in una forma di piccolo libro privato. Raccontare della tua infanzia, adolescenza e prima età matura ti ha permesso di inquadrare, in seguito, la tua storia di malattia in un orizzonte più ampio che è quello del senso di una intera vita. Poi ti sei appassionata e hai continuato a scrivere, fino al punto di pubblicare un libro. Questo libro è stato preceduto da un lungo lavoro di indagine su te stessa. Solo così la narrazione della malattia può assumere una funzione “curativa” della persona. Solo così la scrittura autobiografica non corre il rischio di diventare un puro sfogo del momento, una evacuazione di rabbia e di dolore, ma assume invece il carattere di una vera e propria testimonianza e di una più ampia riflessione sulla condizione umana.

Perché e in che senso la scrittura ci cura?

La scrittura autobiografica ci aiuta a porre domande, ad aprire sguardi nuovi sulla nostra intera vita. In questo modo possiamo metterci in movimento per andare incontro a ulteriore vita. Non esiste una scrittura di per sé “terapeutica”, scrivere non è causa diretta e univoca di guarigione. Possiamo dire che la scrittura autobiografica ci permette di “prenderci cura” di noi nella nostra interezza, nella complessità della nostra vita. Può essere uno strumento complementare rispetto alle terapie eventualmente in atto (siano esse mediche o psicoterapeutiche). Scrivere di sé determina un ampliamento nella conoscenza di se stessi. Determina una salutare presa di contatto con le nostre parti chiare e con le nostre parti oscure. Dare voce e dignità alla narrazione della nostra vita ci aiuta a capire chi siamo, ad accettarci e ad amarci per quello che siamo. Raccontare la vita ci regala momenti di gioia inaudita, una felicità che poi si riverbera positivamente sulle terapie di cui una persona può aver bisogno. Scrivere può aprire delle ferite, può portarci anche dolore, ma ci offre anche la sublime esperienza del superamento, del trascendimento del dolore stesso. Scrivendo, si riaccende la voglia di comunicare, di progettare, di esplorare. Si riaccende e si amplia la voglia di vivere. Di sicuro questo movimento migliora complessivamente il nostro stato di salute e può rinforzare il processo di guarigione.

La scrittura, in questo senso, va sostenuta, incoraggiata e anche guidata. Qualche giorno fa ripensavo alle parole di Tiziano Terzani quando racconta che Ippocrate (il celebre medico della Grecia antica) raccomandava agli ammalati di recarsi sull’isola di Kos per guarire cambiando ambiente e abitudini di vita e assistendo alla rappresentazione di commedie e tragedie. Come ad Anghiari, in fondo. Storie per guarire. Storie per un necessario ampliamento del proprio orizzonte culturale e umano.

Sì, certamente. La scrittura non funziona se non è inserita in una cornice culturale più ampia rispetto alla nostra singola e particolare esperienza. È quello che facciamo ad Anghiari dove l’obiettivo generale è quello di un’ampia promozione culturale della persona. Ad Anghiari c’è un genius loci che aiuta a scrivere. C’è, soprattutto, un accompagnamento al processo dello scrivere di sé in base ad alcuni canoni. Come dici tu, Anghiari può essere vista come l’isola di Kos dove ognuno può trovare gli spazi, i tempi e le persone con cui poter prendersi cura, con la scrittura, della fragilità della condizione umana. Da sempre, filosofia, poesia e letteratura si confrontano con i temi della fragilità dell’esistenza umana, dando loro un senso e una prospettiva.

Anghiari è un luogo che favorisce la scrittura individuale ma è anche luogo di condivisione di scritture e di esperienze. Il Festival dell’Autobiografia che si svolge ogni anno a settembre, ne è una chiara testimonianza.

La scrittura è sempre una necessità di tipo relazionale: mi cura e mi fa bene proprio perché mi mette in relazione con altri e con un “me stesso” che si rinnova scrivendo. La vocazione relazionale della scrittura è un motore potentissimo. La scrittura autobiografica funziona davvero se vi è una propensione verso la comunicazione, verso la trasmissione di un lascito, di una memoria. La fragilità viene proiettata nella scrittura in funzione di una memoria di sé che possa essere compresa e valorizzata. Allora il destinatario diventa la ragione prima del tuo ricorrere alla scrittura: per i figli, per gli amici, per il mondo se si decide di rendere pubblico lo scritto. Scrivere ci consente di amarci, di valorizzarci ma anche di tenere in considerazione l’altro, il destinatario.

Nel tuo ultimo libro “Green Autobiography” ci consegni una importante eredità culturale in cui la scrittura di sé si incrocia con una visione della natura, potente e fragile nello stesso tempo. Fragilità che vanno rispettate e “curate”.

La nozione di fragilità umana ci riporta a un’idea cosmica della fragilità. La natura, in questo senso, è  maestra di vita come ci mostra, per esempio, la poetica di Leopardi. In questo senso vedi e comprendi la tua fragilità perché ti riconosci come parte del cosmo. Il rapporto con la natura, con la terra, diventa occasione straordinaria per inaugurare un ulteriore sviluppo della scrittura come cura: ti rendi conto che non c’é solo il tuo io, c’é un fuori di te che ti chiede di non sprecare il tuo tempo, che ti chiede di assaporare la vita in tutti i suoi aspetti. Questo è il messaggio eco-narrativo: l’invito a godere di se stessi attraverso anche la scrittura di una natura che non sa dirsi e alla quale noi diamo parole poetiche, sublimi o anche orribili e tremende.
Ricordo alcune sequenze del tuo film, Agamà. In quelle scene parli di te e dei tuoi problemi ma sullo sfondo c’è un fiume che scorre, alberi che si specchiano nelle sue acque, il vento…è uno sfondo ben più ampio rispetto alle nostre particolari preoccupazioni. Il rapporto profondo con questo sfondo vasto, che è la natura, costituisce la forma più alta di “cura” che tu possa raggiungere. Questo vuol dire anche educarsi alla morte: alla fine la penna la puoi anche posare – come diceva Tiziano Terzani – e ritrovi il piacere della contemplazione più profonda. La scrittura diventa un veicolo verso tutto questo: una scrittura che, dopo aver ricucito e sanato le ferite della vita, ti porta oltre e ti libera. Questa liberazione ce la può dare solo la natura. O la poesia.

 

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