L’ospite, libro di Michela Musante, moderno Stabat Mater

Che differenza c’è tra una madre che teme di morire e di lasciare i figli ancora piccoli (io) e un’altra madre (Michela) che ha paura di perdere la propria figlia? Entrambe le situazioni, di fatto, si sono felicemente risolte con il trapianto di fegato, ma la domanda resta. Me la sono posta continuamente leggendo il memoir di Michela Musante L’ospite, storia di un trapianto, edito da Ancorawow. 

La vicenda – a prima vista – è quella di Lucrezia, sorella gemella di Ludovico, figlia di Michela e di Andrea. Dodicenne felice, vitale, atleta impegnata a livello agonistico. Sprizzante di forza e salute finché si scatenano le conseguenze letali del morbo di Wilson, malattia genetica rara che impedisce lo smaltimento del rame, metallo che quindi si accumula e intossica il fegato. Quando si manifesta l’ittero vuol dire che il fegato è in cirrosi e da lì a pochi giorni tutti gli organi verranno intossicati e distrutti. 

Lucrezia, la sua storia, dunque. Ma a me, come lettrice, come donna, è balzata al cuore la posizione della madre costretta a chinarsi al letto della figlia morente, condizione inconcepibile per la mente umana, condizione nella quale nessuno vorrebbe mai e poi mai trovarsi. Nessuna madre in nessuna parte del mondo. Invece la Musante ci è caduta dentro. Il suo libro è, a mio parere, la rappresentazione attuale della figura eterna della Madre sofferente, è Stabat Mater, preghiera scritta da Jacopone da Todi nel XIII secolo e successivamente resa in musica dai più grandi compositori, passando per tutti gli stili e le epoche, dal Medioevo al Barocco, dal Classicismo al Romanticismo fino a compositori moderni e contemporanei.

Stabat Mater 
dolorósa

iuxta crucem
lacrimósa

dum pendébat
Filius

Ecco, per me il libro di Michela Musante è tutto in questa eterna figura, la Madre, il Golgota, il Figlio. E forse questa immagine eterna mi è stata suggerita dalla scrittura stessa dell’autrice. Una scrittura alta, perfettamente governata dove si alternano citazione colte ma mai stucchevoli a descrizioni impietose e crude di se stessa, madre piangente, singhiozzante, impazzita di dolore e di furore, pietosa e china al letto della figlia. Una madre nel gorgo della disperazione totale. 

Ho potuto abbracciare Michela sabato 25 marzo, in occasione di una delle tante presentazioni del libro, ormai letto da tantissimi. Bellissima e fiera come tutti coloro che hanno l’ardire di dire di sé, come tutti coloro che hanno il coraggio della scrittura autobiografica.

Ci siamo incontrate di persona dopo anni di corrispondenze, amiche di penna in relazione ai nostri libri.

Per curiosità sono andata a scorrere i messaggi e i lunghissimi vocali whatsapp: il primo risale al 2 aprile 2020. Eravamo in piena pandemia e lei, Michela Musante, scriveva alacremente ed era già in cerca di editore. Attraverso questa corrispondenza e poi leggendo il libro, la questione della differenza tra noi due madri di fronte a due possibilità concrete di morte, la propria e quella della figlia, mi ha assillato. 

Abbandonare i figli perché si muore è doloroso ma – come è successo a me – sviluppi una consolatoria fiducia in loro, confidi nel padre, pensi e vuoi credere che se la caveranno. Quando ti sta morendo un figlio è la fine, si può sopravvivere ma non più vivere. È l’indicibile, l’inconcepibile sofferenza di Maria ai piedi della croce. Per nostra gioia Lucrezia da quella croce è scesa con un fegato nuovo che l’ha rigenerata, che l’ha resa di nuovo felice e vitale, una diciassettenne bella e regale, direi, vedendola alla presentazione del libro.

E la Madre? Cosa ne è di lei? Cosa sente, dove va, quali pensieri la colgono dopo l’attraversamento dell’inconcepibile? Mi piacerebbe che fosse il tema esplicito di un prossimo libro della bravissima Michela Musante!

9 thoughts on “L’ospite, libro di Michela Musante, moderno Stabat Mater”

    1. Forse Laura quando un figlio sopravvive, e poi vive, la madre sperimenta il sollievo di poter vedere il futuro e con esso i progetti e la speranza. Un peso enorme si dissolve.
      Eppure nella sua mente profonda può non superare il trauma vissuto. La sua vita non sarà più difficile o triste di quella di altri ma certamente toccata dall’impensabile.

      1. Sí, lo penso anch’io, una mente toccata irreparabilmente dall’impensabile che, a tratti, può tornare a fare paura. Immagino che a volte questa mente può lasciarsi andare alla gioia profonda della vita ancora possibile

  1. Entrare in punta di piedi in temi così delicati visti da angolazioni diverse descritti con altrettanta delicatezza e cura. La paura ci attanaglia forte quando siamo fragili ma siamo capaci di correre più forte della paura, per affrontarla, superarla e portarle rispetto. Impariamo a conviverci perché impariamo a conoscerla e impariamo a ricostruire e ricostruirci.

    1. Il nostro rapporto con fragilità e paura è infatti altalenante. Non sempre si è forti abbastanza. Il libro della Musante ci ricorda che possiamo essere forti e fragili nello stesso tempo

  2. Le tue bellissime parole mi hanno fatto pensare a Solange, mia amica francese che a distanza di pochi anni ha perso due figli….il richiamo alla figura eterna della madre sofferente è struggente e molto pertinente. Il confronto fra il sentimento delle due madri che i libri propongono ci pone davanti a un angoscioso dilemma.
    Tema dolorosamente affascinante.

    1. Cara Luisa hai colto nel segno: il confronto tra i sentimenti delle due madri è un angoscioso dilemma. Ma che dire della tua amica francese? Le parole cadono, si frantumano, diventano niente di fronte a tanto dolore.

  3. Una lettura intensa, straziante ma allo
    stesso tempo piena di quella forza interiore che caratterizza chi non è vittima del proprio destino ma lo accetta e affronta la paura e si prende cura della fragilità. Entrambe le figure materne per ragioni diverse ma assimilabili si raccontano e si trasformano in altro da se’ e lasciano in queste loro esperienze a noi la ragione più grande di vita l’amore al di la’ di tutto.

    1. Grazie per il commento. Le due madri sono due figure diverse e uguali nello stesso tempo. Come ben dici tu, Antonella, nel raccontarsi comunicano un senso e uno scopo. La cura come destino degli esseri umani

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