PRIMA SOSTA. Il teatro ottocentesco di Chiaravalle. 10 gennaio2016

PRIMA SOSTA. Il teatro ottocentesco di Chiaravalle.

10 gennaio2016

Una serie di concatenazioni mi porta a conoscere Laura Giacomelli, psicoterapeuta e Vicepresidente dell’Avis di Chiaravalle (Ancona) piccolo comune noto per aver dato i natali a Maria Montessori. Sono in contatto con Laura attraverso una intensa corrispondenza legata al testo della sua autobiografia personale per la quale ho avuto il compito di scrivere una lettera di restituzione nella veste di Lettrice della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (www.lua.it).
Nasce, attraverso la corrispondenza, il desiderio di incontrarci. La recente pubblicazione di TRA DUE VITE sembra essere una buona occasione. La scrittura è, tra Laura e me, il medium della comunicazione. Accetto con gioia l’invito a partecipare a una celebrazione dell’Avis locale. Non so bene cosa aspettarmi, non sono pratica (ancora) di presentazioni. È solo la seconda dopo quella ufficiale di Milano. Facile giocare in casa: luoghi noti, pubblico folto e caldo, risultato di una vita spesa in questa città, co-relatori e amici fidati che mi aiutano nel difficile compito della “prima”.
A Chiaravalle, invece, vado da sola. Non conosco nessuno.
Mi conforta il pensiero di essere accolta da Laura, che sento essere persona dalla ricca e profonda umanità, e da suo marito Kimon che imbandisce per me una perfetta cena greca. Una famiglia multietnica, come la mia, con figli che sono il punto di sintesi di culture diverse ma simili nella comune appartenenza umana. Questo ci unisce: Italia, Grecia, India.
Mi conforta il fatto di presentare il libro come contributo a un evento di largo respiro, la celebrazione dei 60 anni di attivitá in favore della donazione di sangue.
Preparo un intervento di circa mezz’ora, sostenuto da domande concordate. Tema: il dono.
Dal bellissimo teatro ottocentesco di Chiaravalle parte così un sentiero di ricerca personale su questa parola, così semplice e così profonda, così piccola nella sua grafia e così grande nel significato.
Il dono. Elemento presente in tutte le culture, un gesto umano che attraversa ogni epoca e percorre ogni latitudine.

Il teatro è gremito, i 300 posti sono tutti occupati da persone di ogni età, vivaci nei gesti e negli sguardi, colorate nell’abbigliamento, ciarliere, allegre. Incrocio con lo sguardo moltissimi sorrisi. Gioia e allegria serpeggiano tra il pubblico, amplificate dagli attori del progetto “Riso fa buon sangue” (http://www.risofabuonsangue.it), dalla musica, dai discorsi delle autorità locali, persone, queste ultime, visibilmente legate ai cittadini da pratiche di vita condivise.
L’Avis di Chiaravalle, per come la incontro in questo teatro ottocentesco, rappresenta l’associazionismo nella sua forma più lietamente umana. L’atmosfera del luogo mi carica di energia.
Arriva il mio turno. Laura mi presenta con parole affettuose, delicate, competenti. Alla fine mi passa il microfono.
Tocca proprio a me, ora. Di fronte a trecento persone che non conosco, che non mi conoscono, in un teatro ottocentesco nel cuore di una città mai vista prima. Mi si allappa un poco la bocca e decido di dare un ultimo sguardo al pubblico prima di parlare.
Ogni pubblico è un’entità a sè. L’ho imparato con l’esperienza. Così come, per altri aspetti, lo è ogni classe scolastica (reminiscenze da ex insegnante!). Ogni pubblico è un unico organismo vivente con un suo stile, con una cultura. Con abitudini, gesti, sensibilità peculiari, consolidate nella storia e nella geografia di quella comunità.
Cosa mi sta chiedendo il pubblico di Chiaravalle? Cosa mi arriva da quei volti che mi guardano in silenzio, in attesa che io parli? Cogliere lo spirito del pubblico è un’esperienza affascinante.
È questione di un attimo: se riesci a intercettare la domanda implicita nei volti che ti guardano, allora tu parlerai tessendo un ponte mobile e si creerà un legame. Se sbagli tono, se non ti connetti subito allo spirito del luogo e delle persone parlerai attraverso un muro. Le parole non passeranno. Torneranno al mittente mezze morte.

Quindi concentrazione: cosa mi sta chiedendo questo pubblico?
In un nanosecondo elaboro le impressioni raccolte, le parole che più frequentemente sono passate, i gesti dei relatori e quelli delle persone in sala. È un pubblico presente, vivo, curioso, benevolmente insediato nel qui ed ora. Pronto a godere il momento e anche a riflettere. A ridere e a commuoversi non sulla base dell’effimero ma sull’onda di esperienze condivise e ben radicate nelle vite di ciascuno. Il lauto banchetto in preparazione nell’atrio mi dice anche che amano il buon cibo e il vino. Un pubblico, per me, ideale. Quindi respiro, mi rilasso.
Mi stanno chiedendo passione e riflessione, il mio pane quotidiano, ma chiedono anche un certo brio, una qualche allegria. Forse è l’influsso di questo clima mite di gennaio con le mimose in fiore.
Posso lasciarmi andare ai temi che mi sono più cari. La gioia del dono, la felicità della cura reciproca, la dimensione umbratile dell’attesa, l’oscurità della morte, il gelo delle nostre paure più profonde. Il calore della condivisione. La forza trasformativa della vita.
Infine si mangia e si beve. Parlo con singole persone che mi raccontano frammenti di storie, che ringraziano, che piangono e sorridono, che esprimono un senso di cosmica gratitudine per la vita.

Arriva sera. Sono ospite nella casa in collina di Laura e Kimon. Silenzio intorno. Chiacchiere sciolte e rilassate. Uno sguardo alla notte, agli ulivi. Una carezza al cane.

Un senso di compostezza. Un luogo.

 

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